Dopo il grande successo dell’autunno passato, l’8 febbraio ricomincia il tour di Max Pezzali. Proprio in occasione della tranche 2014 del Max 20 Live Tour, abbiamo incontrato il cantautore pavese. Partendo dalla tournée siamo finiti a parlare di cowboy e Indiani d’America. (Intervista tratta dal numero di febbraio di Onstage Magazine)
Che Max Pezzali, da qualche anno a questa parte, fosse ormai entrato a pieno titolo nel gotha della musica italiana, quello dei campioni di vendite, per intenderci, se ne erano ormai accorti in molti. Quello che forse era sfuggito a quelli che si ostinavano a sottovalutarne l’impatto culturale sulla nostra società, era forse il fatto che il buon Max non si fosse limitato a parlare di banchi di scuola e flirt finiti male. L’incredibile successo della prima tranche del Max 20 Live Tour, infatti, non può essere spiegato solo con la popolarità di alcuni motivetti orecchiabili o con la simpatia che da sempre Pezzali suscita nella gente. «A dire il vero, ancora oggi non riesco a spiegarmi il successo ottenuto in questi vent’anni. Non sono mai stato un grande cantante e non si può nemmeno dire che sia un sex simbol – puntualizza Max – e fidati, non lo dico per sentirmi dire il contrario, ma perché tutto sommato molte cose restano ancora inspiegabili per me». Forse anche per questo, dopo gli ottimi risultati della raccolta che ne celebrava i primi 20 anni di carriera, quando lui e il suo entourage si misero a pianificare alcune date promozionali, il timore di inflazionarsi era qualcosa di più grande rispetto alla gioia per le vendite eccezionali. «Il disco stava andando benissimo e l’idea di poterlo portare in tour mi elettrizzava come poche volte nella mia carriera. Tuttavia, avevamo paura di fare il passo più lungo della gamba e insieme a Live Nation abbiamo deciso di partire con una manciata di date, giusto per vedere la reazione della gente».
SGUARDO BASSO
Col senno di poi, quella manciata di date si sarebbe trasformata nel suo più grande trionfo e in uno dei tour di maggiore successo dell’anno scorso. Con tanto di nuove date a febbraio 2014. «Dopo i primi sold out abbiamo iniziato a capire che c’era qualcosa di diverso nell’aria, come se la gente fosse lì ad aspettare solo noi. Questo ci ha permesso di aggiungere altre date, ma soprattutto di potenziare la scenografia, visto che le spese ormai erano totalmente coperte». Eppure, se anche i nuovi concerti continuano a collezionare “tutto esaurito”, Max non perde la caratteristica paura che lo attanaglia ogni volta in cui si appresta a salire su un palco. «Forse è una fortuna che non abbia ancora perso quel terrore, perché significa che non mi sono ancora abituato all’impatto col pubblico. Se ci fai caso, sono l’opposto dell’animale da palcoscenico: sguardo basso e parole impacciate. Non riesco a essere qualcun altro e non invidio chi riesce a indossare una maschera sul palco, perché il rischio è quello di sfociare in deliri di onnipotenza alla The Wall». Sì perché Max alle grandi folle è abituato da tempo, ma forse la volta in cui si rese conto davvero dell’amore del suo pubblico fu in Piazza Duomo, a Milano, nel luglio del 1998: «Lì sì che avrei potuto perdere la testa come racconta Roger Waters, ma il mio stato emotivo era così differente, che si rivelò la migliore delle cure. Io e Mauro ci eravamo appena separati e il mondo per un attimo era sembrato crollarmi addosso: non avevo più certezze e quel bagno di folla fu il mio salvagente psichico».
SUL COMODINO DEGLI ADOLESCENTI
D’altra parte, l’unico obiettivo dichiarato dall’ex 883 è sempre stato quello di riuscire a far passare qualche ora di serenità a chi uscisse di casa per andarlo a vedere, senza troppi clamori o proclami intellettualoidi alla Bono Vox e affini. «Quel tipo di comunicazione mi ha sempre spaventato. Quando ti trovi di fronte a decine di migliaia di persone che pendono dalle tue labbra devi stare molto attento a quello che dici, perché qualcuno potrebbe prenderti troppo sul serio. Anche quando il messaggio è positivo ci sono dei rischi. La figura di Bono negli ultimi anni ha perso molto del fascino che aveva proprio per questo motivo, perché in troppi credono ormai che i suoi messaggi nascondano qualche fine personale. Il caso di Jovanotti è differente, perché a un certo punto si è accorto della deriva cui poteva andare incontro e ha fatto un passo indietro prima di compromettersi. Per quanto mi riguarda – continua Max – quando sono in tour mi interessa solo che la gente si diverta così tanto da tornare la volta successiva, quindi da questo punto di vista non posso che essere felice. È bello vedere nuove generazioni ai nostri concerti, gente che quando uscì Hanno Ucciso L’uomo Ragno nemmeno era nata. Ma è stupendo rivedere quelli che ai tempi avevano quindici anni». In effetti, una delle cose più sorprendenti della musica degli 883 è che ai tempi del loro debutto, molti di quelli che su un comodino della camera avevano un loro disco, sull’altro potevano averne uno dei Nirvana o dei Pearl Jam. «Questa cosa mi ha sempre fatto sorridere, ma allo stesso tempo affascinato tantissimo. E so per certo che è vera, poiché tante persone che ho conosciuto in questi anni mi hanno confessato l’inconfessabile!».
QUALCOSA DA SCOPRIRE
In un modo completamente diverso, anche la poetica di Pezzali andava a cogliere un disagio ben radicato in quella generazione. Un disagio che poteva attaccarsi alle urla strazianti e ai testi disperati degli eroi del grunge, così come alla realtà di periferia cantata da Max. Dietro a brani apparentemente innocui o leggeri si celava una malinconia che non veniva colta dai critici, ma che faceva breccia senza filtri negli adolescenti dell’epoca. «Quello fu un periodo storico molto particolare per il mondo e, di riflesso, anche per il nostro paese. Sentimenti contrastanti convivevano tra loro e contribuivano ad alimentare il disagio delle persone più fragili, in primis gli adolescenti. Da una parte c’era una grande fiducia nel domani, un’economia che sembrava florida e foriera di buone nuove per il futuro. Clinton diventò presidente degli Stati Uniti, in Inghilterra la sterlina volava. Dall’altra parte però c’erano sentimenti completamente opposti di persone che cercavano di capire chi fossero davvero. E qualcuno non ci riusciva». Sarà per questo motivo che, da qualche anno a questa parte, i trattati intorno al canzoniere di Pezzali si sprecano: da quando l’intellighenzia del nostro paese ha sdoganato la musica degli 883, in molti si sono messi ad analizzare testi che ai tempi vennero bollati come canzonette buone per un successo estivo e che ora vengono filtrate attraverso lo specchio della psicologia. Forse, più semplicemente, i pezzi degli 883 presentano due chiavi di lettura: una delle quali comprensibile solo una volta cresciuti.
«È sempre stato un vizio del nostro paese quello di bollare come spazzatura la musica leggera. Forse si tratta ancora di un retaggio legato agli anni Settanta e al cantautorato di quel periodo. Pensa cosa succedeva a De Gregori, solo per farti un esempio. Oggi nessuno si sognerebbe più di discuterne l’arte, ma ai tempi il clima era troppo al limite per poter giudicare serenamente qualcosa. Io credo che nella vita ci sia un momento per tutto, ma soprattutto sono convinto che anche una canzone che pare un puro divertissement può celare altro, può dare uno spunto per qualcosa da scoprire».
RIMBOCCARSI LE MANICHE
Non è peccato pensare che in molti giovani, nei primi anni Novanta, si siano avvicinati a gente come i Rolling Stones, il cui blues veniva passato dal locale nel Bronx di Hanno ucciso l’Uomo Ragno, o al Neil Young che passa la radio di Certe Notti. «Assolutamente no. Quello che magari quando hai dieci anni ripeti come un mantra, senza nemmeno sapere cosa voglia dire la parola Stones, può trasformarsi in un regalo quando ne hai diciotto. Ho imparato tanto dai ragazzi più grandi di me, ero onnivoro e quando scoprivo un nuovo gruppo correvo a comprarmi tutto quello che avevano inciso e volevo sapere tutto di loro. Oggi internet, nato come strumento di ricerca attiva e consapevole, ha paradossalmente portato alla scomparsa della curiosità». Forse proprio per questo Max, così legato alla cultura dell’America dell’Ovest, si augura un ritorno ai valori dei cowboy, come mostra chiaramente nel suo ultimo video: «Sì ma non a quelli che uccidevano gli indiani. Sono sempre stato dalla parte dei Nativi Americani, quindi non va frainteso il messaggio della canzone. Parlo dei cowboy come specchio di certi valori: penso al rimboccarsi le maniche nei momenti di difficoltà, al creare reti sociali in grado di sostenere chi non ce la fa con i propri mezzi e al recupero di virtù come la solidarietà e la comunanza d’intenti. Cose di cui avremmo bisogno in questo momento storico».